Il mio primo approccio con la lingua italiana risale all'infanzia, quando, quasi di nascosto, nel corridoio di casa di mio nonno, lo sentivo parlare con mio padre. Ricordo che non mi sembrava una lingua straniera.
A quel tempo abitavo in un bel palazzo nel centro di Málaga, una città aperta, come dimostrava il fatto che c’erano già molti figli e nipoti di famiglie provenienti non solo dall’Italia, ma anche da un numeroso gruppo di tedeschi, da alcuni francesi e inglesi. Mio padre, che tra l’altro era dottore in chimica, lavorava presso un’azienda italiana che possedeva un frantoio proprio nella provincia di Málaga: Maurizio Moro.
Ricordo che a scuola c’eravamo molti discendenti di italiani, per lo più genovesi, arrivati al porto di Málaga nel XIX secolo, come i miei bisnonni, Benito e Maddalena. Altri, invece, erano giunti nel 1937 durante la guerra civile spagnola per combattere, e rimasero poi qui, convinti – ne sono certo – che fosse meglio vivere a Málaga, dove alcuni di loro si erano già sposati, piuttosto che continuare a combattere in una guerra ancora più lunga e crudele, come lo fu la Seconda guerra mondiale.
Tra coloro che si stabilirono lì, ricordo il gelataio Giuseppe Murante, di Venezia, che aveva il suo negozio sotto la casa dei miei nonni. A quel tempo era insolito, entrando in gelateria, dover prima pagare e prendere lo scontrino per poi ordinare il gelato. Ad ogni modo, né io né i miei fratelli – eravamo in cinque – prendevamo mai lo scontrino, perché a fine mese era mio nonno a saldare il conto.
Vi racconto tutto questo perché l’italianità, così come per altri compagni di scuola, significava appartenere a un certo gruppo - come quello dei tedeschi o dei francesi – e per me non è mai stata un’idea estranea, strampalata. Sebbene siamo spagnoli e, nel mio caso, non sono andato in Italia fino a quando non ho potuto mettere da parte un po’ di soldi e prendere un treno per visitare tutta questa penisola, che – pur non essendo un paese così distante – in certi aspetti è stata molto diversa da come l'ero immaginata. Negli anni Ottanta, prima del crollo del muro di Berlino, prima della moneta unica, viaggiare con uno zaino, fino al confine con la Jugoslavia era qualcosa di straordinario e per me è stata una esperienza molto arricchente. Sul treno ho avuto opportunità di conoscere un’Italia che non si trova né sui libri né nei corsi programmati di lingua e cultura italiana. Ho lavorato anche come pizzaiolo e sono stato addirittura arrestato dalla polizia a Venezia accusato di un reato che, ovviamente non avevo commesso 😅. Ero giovane!
Così, io che ero la pecora nera della famiglia, decisi di studiare l’italiano in modo più serio e acquistai il mio primo libro, non solo di lingua ma anche di cultura italiana, intitolato Lingua e vita d’Italia. All’epoca, l’offerta di lingue da studiare nella cosiddetta scuola di lingue si limitava all’inglese, al francese e al tedesco; in televisione c’erano solo due canali e mancavano ancora alcuni anni alla scoperta di internet. Ma non mi arresi e, man mano che imparavo l’italiano, mi rendevo conto di quanto fosse importante la cultura: l’arte, la letteratura, la storia, la musica, il cinema, la cucina, la gastronomia, i modi di dire e tutto ciò che, alla fine, costituisce l’identità di un popolo, di una nazione come l’Italia, al di là degli stereotipi e delle idee preconcette che circolano in Spagna.
Studiare una lingua non è solo tradurre, l’intelligenza artificiale ci ha già “spostati”dal mestiere di traduttori. Per studiare e, soprattutto imparare un’altra lingua, serve la voglia di sentirsi parte di una cultura che va al di là delle parole scritte nel dizionario e c’è bisogno di un impegno da parte dello studente per capire e accettare il modo di essere e le particolarità di un paese – in questo caso l’Italia – che non ci lascia mai indifferenti.
Riccardo Buzo 🇪🇸❤️🇮🇹