I nostri bisnonni, Giuseppe Ciccotosto, Rosa Di Tullio e il piccolo Tommaso, che aveva appena nove mesi, si imbarcarono a Genova nell’agosto del 1901. La nave si chiamava America e quel nome già da solo sembrava una promessa di felicità. Partirono da Vasto, un comune nella provincia di Chieti in Abruzzo, con valigie leggere — un paio di abiti, forse qualche foto — ma con il cuore pieno di speranza.
Fuggivano dalla fame, dalla miseria e da un’Italia che, dopo l’unificazione, aveva abbandonato milioni di contadini al loro destino. Non c’era lavoro, non c’erano prospettive. L’unica via d’uscita sembrava l’emigrazione. L’Italia, in quel periodo, spingeva attivamente i suoi cittadini a partire. Le istituzioni distribuivano manifesti, giornali e opuscoli che raccontavano di un’America del Sud piena di terre fertili e lavoro abbondante. Si parlava di una nuova vita, di ricchezza, di dignità.
Erano tutte illusioni. Una vera e propria illusione collettiva, raccontata per far credere che l’emigrazione fosse una meraviglia, quando in realtà era una lotteria in cui a vincere erano solo i padroni delle terre e chi sfruttava, lucrando sulla disperazione altrui.
Giuseppe e Rosa lasciarono alle spalle i loro genitori, fratelli, sorelle… e con le lacrime agli occhi, si affidarono a quelle voci che promettevano un futuro migliore. Non potevano permettersi di portare tutta la famiglia, così decisero di partire per primi, con la speranza di inviare denaro a chi sarebbe rimasto in Italia.
Dopo quasi un mese di viaggio, che fu faticoso e disumano, sbarcarono al porto di Santos, in Brasile. Ma già all’arrivo iniziarono a capire che quella promessa di benessere non si sarebbe avverata. Non parlavano la lingua, non conoscevano le regole e la realtà era ben diversa dai racconti. Furono trasferiti a São Paulo, nel quartiere Brás, nella Hospedaria dos Imigrantes, dove venivano registrati e “distribuiti” ai proprietari terrieri. Uomini e donne venivano separati, trattati come merce da catalogare. Solo dopo due settimane, la famiglia fu mandata al destino finale: una fazenda di caffè nella città di Jaboticabal.
Lì iniziò il vero calvario. Lavoravano sotto il sole cocente per più di quindici ore al giorno. Il piccolo Tommaso veniva messo in una scatola accanto alla piantagione, mentre i genitori raccoglievano chicchi di caffè. Vivevano in una stanza minuscola, con il bagno condiviso con altri braccianti. Il padrone “forniva” tutto: vestiti, cibo, attrezzi… ma poi segnava ogni cosa su un quaderno, gonfiando i prezzi. A fine mese, non rimaneva quasi nulla. Eppure, con quel poco, riuscivano a mandare qualche soldo in Italia, mantenendo vivo un filo di speranza che smorzava la loro sofferenza.
In Brasile ebbero altri otto figli. La vita non migliorò: povertà, fatica, assenza di diritti. Non tornarono mai più nel BelPaese... e non fu per scelta, ma per mancanza di mezzi.
Oggi, quasi nessuno conosce la loro storia. L’Italia, che ha beneficiato dell’emigrazione di milioni di suoi figli, non ha mai detto loro “grazie”. Nessun riconoscimento, nessun risarcimento. Eppure, senza il sacrificio di questi uomini e donne, forse l’Italia non avrebbe superato quel periodo terribile.
È nostro dovere ricordare sofferenze, sacrifici e amore. È nostro dovere raccontare le loro storie, condividerle, insegnarle. Non erano solo numeri su una nave né nomi su un registro: erano persone, famiglie, cuori spezzati che hanno dato tutto, per dare un futuro a chi è venuto dopo.
Mi permetto di dirLe, signor Tajani, che la vita è fatta di fatti storici, di dignità, rispetto e sentimenti.
Arminda Ciccotosto, italo-brasiliana 🇮🇹❤️🇧🇷